Gocce di letteratura
a cura di Cristina Grassi e Paola Caruggi
(Le) anime morte, 1842
Siamo nella prima metà dell’Ottocento, in una provincia dell’immenso impero russo (di cui l‘Ucraina era parte), in un mondo immobile, feudale, ben prima che la servitù della gleba venisse anche solo formalmente abolita. Il romanzo di Gogol’ ha come trama un ingegnoso tentativo di truffa, pare ispirato da una storia di cronaca: le anime morte del titolo sono i contadini-servi (chiamati anime) deceduti dopo l’ultimo censimento; acquistandole dai proprietari terrieri per poco o nulla, il protagonista Pavel Cicikov spera di accedere ai finanziamenti statali che spettano per legge a chi, possedendo un cospicuo numero di “anime”, intenda iniziare la coltivazione delle terre vergini dello sterminato paese.
Gogol’ ci presenta così il suo “eroe”: “Non era proprio un bell’uomo, ma non era neppure di brutto aspetto, né troppo grasso né troppo esile; non si poteva dire che fosse anziano, ma neppure, d’altronde, che fosse troppo giovane”: Cicikov l’uomo medio, Everyman, il piccolo imbroglione trafficante in defunti, arriva in una cittadina di provincia e riesce a farsi invitare ad una serata cui partecipano i notabili del posto; ecco come l’autore lo descrive mentre si appresta ad uscire:
“I preparativi per recarsi a questa serata occuparono due ore o poco più: e qui nel nuovo arrivato si rivelò una premura per il proprio abbigliamento, quale non è dato vedere tanto spesso. (…) si fece portare l’occorrente per lavarsi, e straordinariamente a lungo si stropicciò col sapone tutt’e due le gote, puntellandole dall’interno colla lingua; quindi, tolto di spalla al servo d’albergo l’asciugamano, ci si strofinò per bene da tutti i versi il viso pienotto, a cominciare da dietro le orecchie – non senza aver dato prima un paio di sbruffate proprio in faccia al servo d’albergo; quindi s’infilò davanti allo specchio la camicia inamidata, estirpò due peli che gli spuntavano di dentro al naso, e un attimo dopo, eccolo col frac indosso, d’un color mirtillo picchiettato”.
(Traduzione classica di Agostino Villa)
L’immagine dell’ometto lustro e paffuto inguainato nel frac color mirtillo picchiettato, pronto a profondersi in inchini e adulazioni ai rispettabili funzionari del luogo è assolutamente indimenticabile. Una volta introdotto alla piccola nobiltà locale, Cicikov viaggia da una tenuta all’altra con la sua carrozza per fare incetta di contadini morti: con lui ci inoltriamo nelle vastissime distese della campagna dell'impero zarista; entriamo in tenute per lo più in declino e incontriamo proprietari avari, crudeli, pigri e inetti sulla cui avidità Cicikov può ben contare per realizzare il suo progetto truffaldino. L’umanità rappresentata da Gogol’ è vile, gretta, spregevole; per descriverla esiste in russo una parola, poshlost’, intraducibile se non con una perifrasi, che indica la mediocrità soddisfatta di sé; meschinità quindi irredimibile perché autocompiaciuta. Si disvela dunque l’ironia del titolo di questo grande affresco comico-satirico: le anime morte non sono tanto i contadini letteralmente deceduti, ma tutti gli altri – proprietari, funzionari, la varia umanità che Cicikov incontra - morti viventi in cui la scintilla dello spirito è definitivamente spenta. Gogol’ aveva pensato la sua opera come la prima parte di una trilogia che a partire dal basso, dalla rappresentazione dei vizi, dalla pratica del male, avrebbe poi dovuto elevarsi fino ad esaltare le virtù del popolo. Ma l’opera rimase incompleta, l’autore stesso poco prima di morire bruciò il manoscritto con la stesura più completa della seconda parte, e il riscatto e la redenzione di Cicikov furono così rimandati sine die. Della Commedia che aveva in mente, insomma, Gogol’ riuscì a concepire con successo soltanto l’inferno…
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